Vigilanza privata: Disegni di Legge nn. 119, 902 e 1008. La posizione del prof. Giovanni Aliquò

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo del prof. Giovanni Aliquò, docente di Diritto di pubblica sicurezza presso l’Università di Roma “Sapienza”, intervenuto lo scorso 10 luglio durante l'audizione in Senato sui Disegni di Legge nn. 119, 902 e 1008 per la riforma della vigilanza privata:

Il recente commento pubblicato da securindex sull’audizione svoltasi in Senato il 10 luglio sui Ddl 119 (Pirro), 902 (Balboni e altri) e 1008 (Spelgatti e altri) offre spunti per alcune riflessioni mirate a contribuire, si spera utilmente, a un cammino che è appena iniziato e che tutti auspicano possa giungere a risultati di ampio respiro.

Un fecondo dialogo sul futuro della sicurezza privata deve aprirsi a tutte le voci qualificate e guardare con realismo ma anche con una visione organica, coraggiosamente innovativa e rispettosa dei principii costituzionali, la disciplina delle sicurezze private.

Per far ciò è opportuno, innanzitutto, inquadrare con ogni possibile coerenza il settore nella cornice che è storicamente quella sua propria: la pubblica sicurezza.

È matura ormai la consapevolezza che non esiste un netto confine tra sicurezza privata e sicurezza pubblica e che, anzi, è normale l’intima e simbiotica connessione tra i due ambiti.

Le attività tipiche della sicurezza privata – un po’ come avviene per quelle di cybersicurezza o per le professioni sanitarie – incidono, direttamente o indirettamente, su interessi pubblici di esclusiva competenza statale e la cui protezione deve essere oggetto del razionale raccordo tra pubblico e privato.

Si ricorderà, peraltro, come alcuni importanti servizi di sicurezza un tempo fossero eseguiti esclusivamente dallo Stato e, secondo una tendenza del tutto fisiologica, oggi sono normalmente attribuiti alle “sicurezze private”.

Il legislatore, per vero, lo ha previsto fin dal 1865, solo che dalla originaria vigilanza campestre alle molteplici e complesse esigenze di sicurezza odierne ne è passata di acqua sotto i ponti. E con quest’acqua, carsicamente, abbiamo assistito a un profluvio di interventi normativi, spesso tra loro non armonicamente coordinati, che hanno disciplinato, non senza ambiguità, vari ambiti della sicurezza privata, armata e non armata.

Il primo intervento “tecnico” che sarebbe possibile e doveroso auspicare da parte del Parlamento, allora, è quello di uno sforzo sistematico e di chiarificazione: ricondurre razionalmente le varie forme di sicurezza privata in un unico testo organico, in modo da distinguere nettamente, a partire dalle definizioni, i diversi ambiti operativi.

Non sfuggirà come una delle cause del dilagante abusivismo nel settore e di danno per gli imprenditori e i lavoratori sia proprio l’incertezza indotta in passato dal legislatore – pressato da spinte irrazionali e corporative – che non sempre ha saputo porre linee chiare tra un ambito e l’altro delle attività di sicurezza privata.

In secondo luogo, l’armonizzazione delle sicurezze private – e non solo nei casi in cui esse ne svolgano un ruolo complementare e/o sussidiario – con la sicurezza pubblica, in un contesto nel quale poteri pubblici e imprenditoria si raccordino, integrino e dialoghino tra loro, è una necessità che è stata messa a fuoco in più occasioni dal legislatore e, in particolare, se ne trovano le radici nella legge 1 aprile 1981, n. 121, la legge che ha riformato l’Amministrazione della pubblica sicurezza. La “nuova sicurezza”, fondata sui modelli del coordinamento e del raccordo, riconosce storia, identità e compiti di ciascun attore, ma al di fuori di qualsiasi tentazione di separatezza.

Di davvero “inusitato” in questi anni, però, si fa purtroppo notare l’attuale assetto “di fatto” delle sicurezze private: il settore, anche quando formalmente si legittima sulla base di licenze di polizia e si fregia di altisonanti “certificazioni di qualità”, è spesso, sostanzialmente, abbandonato a sé stesso e al di fuori di ogni reale governo, controllo ed efficace processo integrativo.

Dal mio personale punto di vista, per esempio, confermo l’opinione che sia prioritario tornare, con interventi che ne attualizzino l’impiego, a fare chiarezza sulla figura dei “portieri” (e su tutte le altre forme disarmate di “servizi fiduciari”). Una figura da rivitalizzare modernamente, aggiornando l’intuizione del TULPS del 1931, al fine di garantire ex ante l’affidabilità soggettiva degli operatori, che devono essere pienamente integrati nel “sistema della sicurezza” del Paese.

Dovrebbe, tra l’altro, impedirsi la fungibilità di queste categorie di lavoratori con quella peculiare delle Guardie giurate, un fenomeno invece pericolosamente dilagante.

Chi si interessa di questo settore ben conosce, poi, i danni prodotti, per esempio, dall’abuso di cessioni/affitti di rami d’azienda, istituti utilizzati troppo spesso in chiave antisociale e per finalità predatorie. E ancora, sono tollerabili sistematici ritardi e irregolarità nel pagamento dei lavoratori, in un settore a forte intensità di manodopera, o tali condotte si traducono in altrettanti fattori di compromissione dell’integrità del mercato e di distorsione della concorrenza?

Questa situazione, che tutti ben conoscono ma che per quieto vivere viene spesso sottaciuta, nuoce gravemente a tre categorie di soggetti: gli imprenditori seri e onesti, costretti a subire la concorrenza sleale di troppi scaltri e impuniti “pirati”; i lavoratori, i cui diritti e sicurezza – come anche messo in luce da recenti inchieste della Magistratura – sono compressi oltre ogni limite; i committenti, che ottengono un servizio di qualità non adeguata, anche se spesso non se ne rendono conto.

Ma a pagare le spese dell’approssimazione sistemica è anche la sicurezza pubblica: tra le cause di eclatanti e remunerativi attacchi criminali a beni da proteggere vi è – nell’assenza di efficaci indirizzi e controlli - anche la cattiva e incontrollata organizzazione di mezzi, tecnologie, servizi e personale armato.

In secondo luogo, se gli operatori armati devono essere adibiti a compiti di maggiore responsabilità e impegno per prevenire il crimine, anche a protezione di interessi pubblici, non si può pensare di lasciarli sprovvisti di una qualifica che, oltre a farli sentire pienamente integrati nel “sistema della pubblica sicurezza”, offra loro un minimo essenziale di protezione. Al contrario di quanto si afferma, gli “effetti pratici” di questa proposta avrebbero ricadute sull’intero territorio nazionale, essendo in ogni provincia presenti uffici pubblici, sedi istituzionali, luoghi di cura e obiettivi sensibili da presidiare.

È per questo che, guardando all’alto insegnamento del Prefetto Carlo Mosca, ho auspicato che, almeno in alcuni casi, possa essere attribuita alle Guardie giurate anche la qualifica di “agenti di pubblica sicurezza”.

Da ciò discende, tra l’altro, che, almeno in tutti i casi in cui il personale sia impiegato per ricoprire tali peculiari incarichi, gli imprenditori dovrebbero più largamente garantire una formazione e un aggiornamento “certificati”, presso Istituzioni pubbliche o private a loro volta debitamente qualificate e controllate.

L’esperienza ci insegna, infatti, come, lì dove la formazione non sia attualmente parte di un puntuale obbligo di legge o di contratto per l’accesso a determinati servizi, la tendenza di certi “imprenditori” sia oggi quella di eludere o affievolire – in quanto costi - gli “obblighi generici” pur discendenti da licenze e contratti e/o di scaricarne in tutto o in parte gli oneri sui lavoratori, con ricadute non certo positive in termini di qualità e sicurezza del servizio.

Ho messo in campo anche l’ipotesi - che allo stato non è contenuta in nessuno dei tre Disegni di legge - dell’istituzione, presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, di una “Direzione centrale delle Sicurezze Private” (o della Polizia amministrativa). Meglio sarebbe se tale Direzione potesse essere partecipata da esperti provenienti anche da altre Amministrazioni, oltre che avvalersi delle competenze espresse nella Commissione consultiva centrale per le attività della vigilanza privata. Un corrispondente rafforzamento dovrebbe verificarsi negli Uffici territoriali di governo e controllo del “sistema”, presso le Prefetture e Questure. Un sistema razionale di indirizzo e controllo del settore del quale il Governo debba annualmente rendere conto al Parlamento.

Una delle cause del prosperare di certi indesiderabili fenomeni nel settore delle sicurezze private, invero, è proprio la mancanza, al centro e sul territorio, di Uffici adeguati e di un Corpo di funzionari opportunamente formati e specializzati per governare e controllare le varie forme di sicurezza privata.

E certo un’efficace attività di prevenzione avanzata finalizzata a escludere ex ante che, in una compagine imprenditoriale dei servizi di sicurezza privata, possano agevolmente infiltrarsi e operare elementi che esprimano interessi men che cristallini non può essere confusa con una “pastoia burocratica”.

In definitiva, i tempi sono maturi affinché il dialogo tra Sicurezza pubblica e Sicurezze private, anche sulla base di trascorse positive esperienze, non sia più meramente settoriale, cartolare ed episodico, ma si consolidi e normalizzi olisticamente in una stabile interazione. Un dialogo che si sviluppi su più livelli in un quadro di efficienza e trasparenza, offrendo mutuo vantaggio a tutti i soggetti coinvolti e, più in generale, ai cittadini.

Sotto questa luce certi interrogativi “tecnici” possono essere agevolmente sciolti.

Innanzitutto, ricordo a me stesso come il Parlamento sia sovrano nell’emanazione delle Leggi che - ai sensi dell’art. 117, comma 1, lett. h della Costituzione e nei confini che la Corte costituzionale ha ben messo a fuoco - riguardano la sicurezza. In tale perimetro sono ampiamente ricomprese le varie forme di sicurezza privata ed è il Governo a essere soggetto ai poteri e alle iniziative del Parlamento, non viceversa.

Sono certo, peraltro, che al vertice del Ministero dell’Interno e del Dipartimento della pubblica sicurezza vi siano sensibilità in grado di apprezzare le esigenze di sistema e organizzative di cui si è sopra accennato. Secondo modelli che trovano antica espressione nei servizi di Specialità della Polizia di Stato, potranno anche agevolmente trovarsi adeguate soluzioni di finanziamento dei nuovi assetti organizzativi.

Davvero intollerabile, con riguardo sia agli interessi pubblici, sia a quelli di un’utenza di servizi di sicurezza sempre più sofisticati e moderni, sia delle imprese che vogliano giocare con serietà il loro ruolo in questo delicato settore, sarebbe invece un mercato delle sicurezze private “grigio” e anarchico, privo di qualificati controlli o, peggio ancora, in mano a soggetti inaffidabili, che possano obliquamente condizionarlo.

Più ancora che la libertà d’impresa, in questo caso sarebbero in pericolo i diritti e le libertà dei cittadini.

 

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